La disciplina del lavoro part-time è sostanzialmente contenuta nel D.lgs 81/2015, negli articoli da 4 a 12 della legge, comunemente noto come “Testo Unico dei contratti di lavoro”. Il cuore della normativa prevede che il datore di lavoro debba indicare puntualmente la durata della prestazione lavorativa e la sua collocazione temporale, con riferimento al giorno, alla settimana, al mese, all'anno. Nell'ottica del bilanciamento degli interessi, pertanto, la legge impone alle imprese una forma di rigidità particolarmente forte, che, soprattutto in alcuni settori produttivi dove è più difficile predeterminare l'articolazione oraria delle prestazioni dei propri dipendenti, di fatto può creare forti impatti sull'organizzazione del lavoro. Le motivazioni della scelta del legislatore sono ancora una volta ribadite da una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 11333 del 29 aprile 2024, che si occupa specificatamente della fattispecie di part time verticali organizzati in turni (la società soccombente pensava che in tale specifica ipotesi non fosse necessario indicare in anticipo gli orari di lavoro): «…la ratio protettiva del part time richiede una immediata indicazione dell'articolazione oraria dell'attività al fine di consentire al lavoratore una migliore organizzazione del tempo di lavoro e del tempo libero….posto che la normativa si pone l'obiettivo di contemperare le esigenze del datore di lavoro di utilizzazione della prestazione in forma ridotta e del lavoratore di poter consapevolmente organizzare il suo tempo, in modo da poter gestire le sue attività di lavoro ulteriori e di vita quotidiana…». Come allora sopperire a questo problema, dando alle imprese la possibilità di rispondere alle proprie esigenze di flessibilità? Due sono sostanzialmente le strade: il lavoro supplementare e le clausole elastiche. Le eventuali ore aggiuntive all'orario di lavoro concordato e predeterminato tra azienda e lavoratore sono definite lavoro supplementare. Le regole di ingaggio sono disciplinate dall'art.6 del D.lgs n.81/2015: nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, il datore di lavoro ha la facoltà di richiedere, entro i limiti del corrispondente lavoratore a tempo pieno, lo svolgimento di prestazioni supplementari. Due i possibili scenari:
- nel caso in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non disciplini il lavoro supplementare, l'azienda può richiedere al proprio dipendente lo svolgimento di ulteriori prestazioni di lavoro in misura non superiore al 25% delle ore di lavoro settimanali concordate; in tale ipotesi il lavoratore può rifiutare le prestazioni solo ove giustificato da comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale. Le ore prestate come supplementare sono retribuite con una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale di fatto, comprensiva dell'incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti;
- negli altri casi prevale quanto disciplinato nei singoli contratti collettivi di lavoro applicati al lavoratore.
Interessante notare che, in assenza di una specifica disciplina sul punto nei diversi ccnl, non è prevista la necessità del consenso del lavoratore e, conseguentemente, il datore di lavoro può pretendere lo svolgimento di ore lavorative extra, nei limiti di quanto stabilito dalla legge e ricordati al punto precedente (comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o formative, con il tetto massimo del 25% delle ore di lavoro settimanali indicate nel contratto individuale). Nell'ambito delle diverse discipline dei contratti collettivi di lavoro, merita soffermarsi sulla soluzione individuata dal CCNL Autostrade: “È facoltà dell'Azienda richiedere e del lavoratore accettare prestazioni di lavoro supplementare …. Le ore di lavoro supplementare, intendendosi per tali quelle eccedenti la prestazione minima concordata, sono retribuite come ore ordinarie …”. In questo caso, quindi, viene previsto il consenso del lavoratore ma le ore prestate in supplementare sono pagate senza alcuna maggiorazione. Il classico modo per esercitare appieno le esigenze di flessibilità delle aziende è rappresentato dalle c.d. “clausole elastiche”, così come normate, di nuovo, dall'art.6, commi da 4 ad 8, del D.lgs n.81/2015. Nel rispetto di quanto eventualmente previsto nei contratti collettivi, le parti individuali del contratto a tempo parziale possono stabilire, per iscritto, clausole che prevedano la variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa pattuita ovvero la variazione in aumento della sua durata. A differenza quindi del lavoro supplementare che disciplina l'eventuale utilizzo di prestazioni aggiuntive, in questo caso si prevede la modifica delle condizioni di partenza del contratto individuale. Se le parti sono d'accordo e sottoscrivono espressamente tali patti, il prestatore di lavoro ha diritto a un preavviso di due giorni lavorativi, fatte salve diverse intese, nonché a specifiche compensazioni, nella misura o nelle forme previste dai contratti collettivi. La legge prevede anche il caso in cui il contratto collettivo non disciplini le clausole elastiche: le parti potranno incontrarsi davanti alle commissioni di certificazione, con facoltà del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro, per garantire la libertà della scelta del lavoratore. In questa fattispecie la norma espressamente prevede il diritto ad una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale e la misura massima dell'aumento della durata del contratto, che non potrà eccedere il 25% della normale prestazione annua del dipendente. Il dipendente che ha prestato il suo consenso alle clausole elastiche può cambiare idea solo nelle seguenti ipotesi:
- se lavoratore studente
- se affetto da patologie oncologiche o gravi patologie
- se assiste un convivente con totale e permanente inabilità lavorativa e che abbia necessità di assistenza continua
- se convive con figlio di età non superiore a 13 anni o con figlio portatore di handicap.
Infine, la Legge prevede all'art.6 comma 8 del D.lgs n.81/2015 che il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell'orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL