La Cassazione, con ordinanza 9 agosto 2024 n. 22643, considera legittimo l'utilizzo da parte del lavoratore beneficiario dei permessi ex Legge 104 per lo svolgimento di attività funzionali alle necessità del soggetto assistito, quali provvedere alla spesa per quest'ultimo. Nel caso in esame la Corte d'appello territorialmente competente aveva accolto parzialmente il reclamo presentato da un lavoratore avverso la sentenza del Tribunale che aveva respinto la sua opposizione all'ordinanza emessa dal medesimo. Ordinanza con cui era stata rigettata l'impugnativa del licenziamento per giusta causa intimatogli il 21 febbraio 2020 dalla sua datrice di lavoro. Nello specifico, al lavoratore era stato addebitato - diversamente da quanto attestato al fine di ottenere i permessi ex art. 33, c. 3, Legge 104/92 – di non aver prestato alcuna assistenza al nonno disabile nei giorni richiesti, ossia il 22 dicembre 2019, il 24 dicembre 2019, il 31 dicembre 2019, il 5 gennaio 2020, il 19 gennaio 2020 ed il 26 gennaio 2020. In particolare, la Corte distrettuale aveva ritenuto accertato e provato che il 22 dicembre 2019, il 24 dicembre 2019 ed il 26 gennaio 2020 il lavoratore non aveva incontrato il parente disabile né aveva svolto nei suoi confronti alcuna attività di assistenza, anche indiretta. Tuttavia, essi, a suo parere, non rivestivano carattere di gravità tale, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, da integrare gli estremi di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Con riferimento agli addebiti circa le restanti giornate, essi per i giudici di merito non erano stati provati; soffermandoci sulle contestazioni del 31 dicembre e del 19 gennaio, dalla relazione redatta dalla società investigativa ingaggiata dalla datrice di lavoro, era emerso che in detti giorni il lavoratore si era recato a fare la spesa al supermercato. E l'affermazione del lavoratore di aver acquistato prodotti anche per il congiunto non era implausibile, poiché si trattava di acquisti effettuati un negozio di genere alimentari, né confutata da alcun elemento di segno contrario, che la società avrebbe dovuto produrre e dimostrare. La Corte d'appello aveva così accolto la domanda del lavoratore di vedersi applicare la tutela reintegratoria di cui all'art. 18, c. 5, Legge 300/70, rientrando in una delle “altre ipotesi”, in cui ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo e della giusta causa. Pertanto, la stessa aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro tra le parti con effetto dalla data di intimazione del licenziamento e aveva condannato la società a corrispondere al lavoratore l'indennità risarcitoria omnicomprensiva ex art. 18, comma 5, della Legge 300/70 pari a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto nonché l'indennità sostitutiva del preavviso, con interessi legali e rivalutazione monetaria. Avverso la decisione di merito, la società decideva di ricorrere in cassazione, affidandosi a quattro motivi, a cui resisteva il lavoratore con controricorso e la stessa depositava memoria. La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, ribadisce che può costituire giusta causa di licenziamento l'utilizzo da parte del lavoratore dei permessi ex Legge 104/92di cui beneficia in attività diverse dall'assistenza al familiare disabile, con violazione delle finalità per le quali il beneficio è concesso. Ciò in quanto l'assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è stato riconosciuto, ossia l'assistenza al familiare disabile. La norma non consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui essa stessa è preordinata. Viene anche sottolineato che il beneficio riconosciuto al lavoratore comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Laddove “il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e si è, pertanto, in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto (…), oppure, secondo concorrente o distinta prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell'ente assicurativo (anche ove non si volesse seguire la figura dell'abuso di diritto che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell'unione Europea)”. Passando a fattispecie simili a quella di specie, la Corte di Cassazione richiama precedenti giurisprudenziali secondo i quali è illegittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore per abuso dei permessi assistenziali ex art. 33 Legge 104/92 allorché sia emerso in corso di causa che questi li aveva utilizzato per attendere a finalità assistenziali in favore della ex moglie presso la propria abitazione. Di converso la condotta del lavoratore nella fruizione dei medesimi permessi, consistente nell'aver svolto l'attività assistenziale soltanto per una parte marginale del tempo totale concesso, concreta un abuso in grave violazione dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. e costituisce, pertanto, giusta causa di recesso del datore di lavoro. Tutti tali principi, continua la Corte di Cassazione, sono stati anche confermati dalla pronuncia n. 25290/2022, pure riferita a caso analogo a quello in esame, secondo la quale i permessi ex art. 33, comma 3, Legge 104/92, da un lato, sono delineati quali permessi giornalieri (tre al mese), e non su base oraria o cronometrica, e, dall'altro, possono essere fruiti, “a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno”, “per assistere, in forme non specificate, segnatamente in termini infermieristici o di accompagnamento, una “persona con handicap in situazione di gravità”. Proprio alla luce di tali considerazioni, i giudici di merito hanno ritenuto l'addebito relativo al 5 gennaio 2020, non dimostrato, mentre, con riferimento ai giorni 31 dicembre 2019 e 19 gennaio 2020, gli stessi hanno concluso che il lavoratore avesse svolto “attività funzionali alle necessità del soggetto assistito (quali provvedere alla spesa per quest'ultimo)”. In merito, poi, agli altri tre giorni contestati (22 dicembre 2019, 24 dicembre 2019 e 26 gennaio 2020) la Corte di merito li ha considerati provati, ritenendoli disciplinarmente rilevanti ma ridimensionandone la gravità anche sull'assunto che non vi fossero precedenti disciplinari a carico del lavoratore. Pertanto, giungevano alla conclusione che il licenziamento era una “sanzione sproporzionata rispetto alla gravità delle mancanze accertate”. Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione rigetta così il ricorso presentato dalla società, condannandola al pagamento in favore del lavoratore delle spese del giudizio di legittimità.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL