La ritorsività si caratterizza per l'assenza di qualsiasi ragione in grado di giustificare il licenziamento secondo le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo e per il ricorrere di prove anche indiziarie atte a disvelare il motivo illecito quale motore esclusivo dell'agire datoriale, di ingiusta reazione a un comportamento legittimo del dipendente. Il caso trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice con mansioni di infermiera presso una casa di cura gestita da un'azienda ospedaliera all'esito di un procedimento disciplinare avviato in data 27 luglio 2018. In particolare, alla lavoratrice era stato contestato che aveva omesso di segnalare che un suo collega, nel corso del turno programmato per la notte tra il 16 ed il 17 luglio 2018, le aveva comunicato che sarebbe andato a dormire nella stanza di “deposito del pulito”, lasciandola da sola a gestire il turno, durante la notte e durante le cure dei pazienti alle ore 5 di mattino. Secondo la società, la lavoratrice, non avendo obiettato nulla al collega e non avendo nulla segnalato ai superiori, si era resa complice del suo grave inadempimento e aveva compromesso la regolare assistenza ai pazienti. Alla stessa era stata anche contestata la recidiva in relazione ai precedenti disciplinari datati 24 ottobre 2008 e 8 luglio 2009. La lavoratrice aveva impugnato il provvedimento espulsivo che veniva in primo e in secondo grado dichiarato nullo, perché ritorsivo, con applicazione nei suoi confronti della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, commi 1 e 2, della Legge n. 300/1970. I giudici di appello escludevano vi fosse stata alcuna violazione del dovere di diligenza osservando che la lavoratrice (a) non solo aveva reso regolarmente la propria prestazione ma anche aveva evitato ogni disservizio, svolgendo pure il lavoro del collega; (b) non si era resa complice del collega avendo riferito l'accaduto alla sua diretta superiore e (c) non aveva alcun obbligo di controllo sulla regolarità delle prestazioni degli altri dipendenti in turno e nessuna prova era stata fornita in tal senso dalla società. Secondo i giudici non era stato provato qualche specifico pregiudizio che fosse derivato alla società dall'asserita condotta omissiva della lavoratrice ed i precedenti disciplinari richiamati nella lettera di contestazione era troppo risalenti nel tempo e, pertanto, inidonei a supportare la contestazione di recidiva. I giudici di appello avevano così confermato la natura ritorsiva del licenziamento intimato alla lavoratrice perché riconducibile alla sua iscrizione alla sigla sindacale che aveva promosso una vertenza nei confronti della società per il riconoscimento di alcuni adeguamenti retributivi previsti dal nuovo CCNL di settore. Vertenza questa che si era conclusa nel giugno 2018 con esito favorevole per i lavoratori. Sul punto, i giudici di appello evidenziavano che la contiguità cronologica tra la conclusione con esito positivo del contenzioso ed il procedimento disciplinare in questione confermava la tesi per cui la vicenda di che trattasi si era “innestata su un substrato di elevata conflittualità tra le parti” e che il motivo di rappresaglia aveva costituito la vera ragione del recesso. Ciò era stato, oltretutto, confermato dall'ulteriore indizio rappresentato dal fatto che dei cinque lavoratori iscritti al sindacato che avevano avviato il contenzioso, alcuni (compresi la lavoratrice) erano stati licenziati mentre altri, che avevano revocato l'iscrizione al sindacato e rinunciato al ricorso giudiziale, erano rimasti in servizio. La società ricorreva in cassazione, affidandosi a sette motivi, a cui resisteva con controricorso la lavoratrice. La società, a sua volta, depositava memoria. La Corte di Cassazione, investita della causa, osserva che il licenziamento per ritorsione è considerato nullo allorquando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l'unico determinante dello stesso ai sensi del combinato disposto dell'art. 1418, secondo comma, e degli artt. 1345 e 1324 c.c. Nella costruzione di questa forma di recesso, osserva la Corte di Cassazione, “viene valorizzata” la disposizione normativa di cui all'art. 1345 c.c. che:
- “derogando al principio secondo il quale i motivi dell'atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto determinato da un motivo illecito comune alle parti, in virtù del disposto di cui all'art. 1324 cod. civ.” e
- “trova applicazione anche rispetto agli atti unilaterali, laddove essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l'illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dell'art. 1343 cod. civ. nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume”.
In questo contesto, la Corte di Cassazione sottolinea che il motivo illecito si trova su un piano differente rispetto al (giustificato) motivo soggettivo e oggettivo di licenziamento ex art. 3 della Legge n. 604/1966. Quest'ultimo, al pari dell'art. 2119 c.c., costituisce il presupposto per il legittimo esercizio del potere, sia esso disciplinare che organizzativo, attribuito al datore di lavoro, la cui mancanza è causa di annullabilità del licenziamento. Il motivo illecito, continua la Corte di Cassazione, deve avere efficacia determinativa esclusiva, rendendo il provvedimento espulsivo contrario ai valori ritenuti fondamentali per l'organizzazione sociale così da determinare la nullità. Esso rileva “indipendentemente dal motivo formalmente addotto” così come recita l'art. 18, comma 1, della Legge n. 300/1970. Il licenziamento ritorsivo, precisa la Corte di Cassazione, è stato in sostanza definito come “l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta”. Ad avviso della Corte di Cassazione, proprio a tali principi si è attenuta la Corte d'appello nell'escludere la sussistenza della giusta causa di licenziamento, ritenendo dimostrato l'intento di rappresaglia della società. Infatti, i giudici di merito hanno rinvenuto, accanto alla plateale mancanza di una grave violazione degli obblighi contrattuali e del dovere di diligenza della lavoratrice, elementi indiziari quali (i) la “contiguità temporale” tra l'esito del contenzioso riferibile al sindacato cui la stessa era iscritta e la contestazione disciplinare mossa nei suoi confronti nonché (ii) il diverso trattamento riservato dalla società rispettivamente agli iscritti al sindacato (tutti licenziati, tra cui la lavoratrice) e ai dipendenti che avevano revocato tale iscrizione (rimasti in servizio). Sul punto, precisa la Corte di Cassazione, la ritorsività si caratterizza, infatti, “per la assenza di qualsiasi ragione in grado di giustificare il licenziamento secondo le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo e per il ricorrere di prove anche indiziare, pure basate su semplici dati statistici (…), atte a disvelare il motivo illecito quale motore esclusivo dell'agire datoriale, di ingiusta reazione ad un comportamento legittimo del dipendente”. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per l'inammissibilità del ricorso presentato dalla società, condannandola alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL