Usi aziendali: efficacia di un contratto collettivo aziendale

Usi aziendali: efficacia di un contratto collettivo aziendale

  • 28 Agosto 2024
  • Pubblicazioni
La reiterazione costante di un comportamento favorevole ai dipendenti integra gli estremi dell'uso aziendale che, essendo diretto ad un'uniforme disciplina dei rapporti con la collettività dei lavoratori, agisce sul piano dei singoli rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale. A stabilirlo è la Cassazione con l'ordinanza n. 21836 del 2 agosto 2024. Nel caso in esame la Corte distrettuale aveva rigettato il ricorso presentato da un lavoratore avverso la decisione del Giudice di prime cure, confermando la legittimità del licenziamento intimatogli dalla società datrice di lavoro. In particolare, la Corte d'appello, anche alla luce delle risultanze emerse durante l'attività istruttoria e nell'ambito della consulenza tecnica di ufficio (CTU), aveva ritenuto che il lavoratore nella sua qualità di capo negozio ed addetto alla custodia e conservazione del denaro presente nel punto vendita a cui era stato assegnato, si era reso responsabile dell'ammanco di complessivi Euro 38.490,50. Ad avviso della stessa, la contestazione disciplinare era stata sufficientemente precisa da rendere edotto il lavoratore sugli addebiti mossi nei suoi confronti. Addebiti consistenti nella mancata osservanza delle procedure di cambio moneta e, in particolare, del mancato “riversamento” delle somme oggetto di cambio nelle casse del negozio con conseguenti ammanchi nella contabilità complessiva. Detti addebiti configuravano, quindi, un inadempimento tale da pregiudicare irrimediabilmente il vincolo fiduciario che legava le parti. Avverso la decisione di merito il lavoratore ricorreva in cassazione a cui resisteva la società. Il lavoratore eccepiva, tra l'altro, che:
  • le direttive aziendale sul cambio moneta erano state superate da una prassi aziendale differente e tollerata secondo la quale le ricevute dell'avvenuto cambio a volte si tenevano in negozio e a volte si inviavano in sede e che, comunque, il cambio dello “spicciolame” non veniva effettuato contestualmente ma appena possibile;
  • vi era stata una violazione dell'art. 18, comma 5, dello Statuto dei Lavoratori per difetto di proporzionalità e mancanza di giustificazione del licenziamento. Al riguardo lo stesso osservava che la presenza di un uso aziendale, tollerato nel tempo, potesse costituire ragione di temperamento della negligente condotta e della conseguente valutazione circa la proporzionalità della sanzione espulsiva.
La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, ribadisce che “al fine della formazione degli usi aziendali, riconducibili alla categoria degli usi negoziali o di fatto  (…) rileva il mero fatto giuridico della reiterazione, nei confronti di una collettività più o meno ampia di destinatari, del comportamento considerato purché caratterizzato dal requisito della spontaneità”, con la precisazione che “detta reiterazione deve risultare “a posteriori” dalla verifica di una prassi già consolidata senza che possa aversi riguardo all'atteggiamento psicologico proprio di ciascuno degli atti di cui si compone tale prassi”. Ciò in quanto “il consolidamento di una prassi manifesta di per sé, sia pure implicitamente, l'intento negoziale di regolare anche per il prosieguo gli aspetti del rapporto di lavoro cui attiene”. Sul punto, sottolinea la Corte di Cassazione, è stato anche evidenziato che “la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole ai dipendenti integra gli estremi dell'uso aziendale che, essendo diretto, quale fonte sociale, a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con la collettività impersonale dei lavoratori in azienda, agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale”. Nel caso in esame, ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito - dopo aver dato atto della esistenza di disposizioni aziendali che assegnavano al responsabile del negozio (quale il ricorrente) il compito di riversare in azienda una somma corrispondente agli spiccioli ricevuti unitamente all'incasso del punto vendita – hanno riscontrato che vi era stata una maggiore elasticità temporale nella consegna, tollerata dalla società. Tuttavia, tale riscontro, se pur qualificabile quale uso aziendale con le caratteristiche succitate (reiterazione quale espressa volontà di regolazione anche per il futuro), comunque non può assume particolare rilievo ai fini decisionali. Ciò in quanto nel giudizio di merito è emerso che, nonostante la possibile “elasticità” nel riversamento delle somme in questione, vi era stato un ammanco finale nelle casse della società riferito a 19 operazioni di cambio moneta non registrate. Pertanto, la Corte di merito è giunta alla conclusione che il predetto ammanco, comunque addebitabile alla responsabilità del lavoratore quale capo negozio tenuto a rispettare le disposizioni di regolarità contabile e tenuta delle scritture relative, fosse la ragione della perdita del rapporto fiduciario e del legittimo recesso datoriale.  La Corte di Cassazione nel concludere richiama il seguente principio di diritto “in tema di licenziamento per giusta causa , ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo”. E la Corte di merito, ad avviso della Corte di Cassazione, conformemente a questi principi ha valutato i comportamenti ed espresso un giudizio ampiamente motivato che non è rivalutabile in sede di legittimità. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal lavoratore, condannandolo alle spese del giudizio.


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL